“Con
occhi sempre attenti e con cicatrici visibili ed invisibili, mi diressi a Nord,
pieno di un’oscura nozione che la vita poteva essere vissuta con dignità, che
l’altrui personalità non deve essere violata, che gli uomini debbono essere in
grado di guardare in faccia gli altri uomini senza timore o vergogna e che se gli uomini son fortunati
nella loro vita sulla terra possono trovare qualche riscattante significato per
aver lottato e sofferto quaggiù, sotto le stelle.”
(R.
Wright – “Ragazzo negro”).
In una mattina
come tante di un giorno come tanti sono lì che mi affanno a spiegare ai miei
alunni di prima elementare quanto sia bello avere dei compagni che provengono
da quasi tutte le parti del mondo, quanto sia importante confrontare i modi di
dire e le parole che si somigliano e bla bla bla, quando quel bimbetto del
primo banco, quello carino con gli occhiali sul nasino all’insù, alza la sua
manina, come gli ho insegnato per non interrompere gli altri quando parlano, e
chiede serafico: “è vero maestra che
tutti i bambini filippini hanno i denti cariati?”
“Certamente no!”
rispondo incuriosita; e lui, senza
scomporsi,: “no, no è proprio vero, lo ha detto mio padre!”. Stupidamente
insisto (deformazione professionale): “è
come dire che tutti i bambini nati a Viterbo portano gli occhiali!” Il bambino mi guarda con aria interrogativa,
tocca i propri occhiali perplesso e mormora: “se lo dice mio padre è così!”.
Allora capisco
quanto certi preconcetti siano radicati, quanto i messaggi verbali e non verbali
non trovino filtro in queste giovani
menti, quale responsabilità mi sia stata affidata.
E’ tutto da
rifare, “fermate il mondo, voglio scendere!” diceva la mia generazione, forse troppo tempo fa.
Ora però siamo grandi e non possiamo più scendere, forse non lo vogliamo
nemmeno. Ci assumiamo le nostre responsabilità, ognuno nel proprio ambito. Come
insegnante non ho certo i mezzi per risolvere tutti i problemi connessi
all’integrazione degli alunni stranieri, ma posso quantomeno provare a pormi in un’ottica diversa quando parlo ai miei
alunni, quando propongo loro uno stile educativo e didattico, superando i
confini di una scuola che sempre più spesso accoglie un pezzetto di mondo,
divenendo un variopinto puzzle.
E come in tutti
puzzle che si rispettano, ogni tessera ha la sua importanza e la sua forma,
concorrendo alla realizzazione dell’immagine.
Troppo spesso ci
si concentra sul “politicamente corretto”
ignorando che un stile di comportamento si acquisisce nel tempo
attraverso la conoscenza e l’incontro; e se è vero che “l’identità è un processo di costruzione […] la condizione della
sua formazione è la relazione che si attua tra i suoi componenti (di un gruppo
n.d.r.) e tra questi e i componenti di altri gruppi…”[1], nel caso specifico nella scuola
primaria (e non solo) ci si deve porre il doppio intento di favorire lo
sviluppo dell’identità personale come percezione di sé e di identità in termini
di relazione con l’altro, dove questo acquisisce il carattere di valore
aggiunto e non di diversità biologico-culturale.
Lavorare nella
scuola primaria richiede un fondamentale impegno con sé stessi: mettersi sempre
in discussione, mai dare nulla per certo o assodato, ricordarsi in ogni momento
che si ha a che fare con esseri umani e non con “incartamenti burocratici”.
La scelta di
approfondire il discorso interculturale nasce dall’esperienza quotidiana, con
l’intento di studiare percorsi di apprendimento in forma aperta, che non
racchiudano l’insegnamento entro i limiti rigidamente definiti dai curricoli.
La presenza di
bambini di madre lingua non italiana nella scuola, ha posto i docenti nella
condizione di reinventarsi, andando a scovare sempre nuove strategie di
intervento. Troppo spesso, però, si tratta di interventi poco costruttivi
perché non supportati da un’adeguata preparazione in materia.
In altri casi lo
smarrimento di fronte alla propria incapacità di affrontare il problema fa
diventare arroganti o, caso più consueto, si fa finta che la questione non
esista e si continua ad insegnare come se ciò non fosse importante.
Accanto a
lodevoli iniziative di insegnanti preparati e probabilmente motivati
politicamente (le scuole della Toscana ne sono un esempio) troppo spesso si
osservano ridondanti progetti di intercultura ispirati ad un “buonismo” estetico;
infatti “si constata che la tematica
della cosiddetta società multiculturale è talvolta l’occasione per esercizi di
mera retorica che, mentre occultano i termini veri della questione, inducono
per di più una cultura dei buoni
sentimenti, una coscienza ingenua, da
cui sarà arduo e doloroso liberarsi”[2].
Oggi sembra
opportuno riflettere, prima di tutto, sugli scopi di un’educazione
interculturale nella scuola primaria, cercando di fissare gli obiettivi
principali del nostro intervento educativo, ponendo sotto una lente di
ingrandimento le realtà di fronte a cui ci si trova, senza perdere di vista di
essere solo un’agenzia educativa istituzionale e che un immenso extrascuola,
composto di un tessuto connettivo coriaceo fatto spesso di luoghi comuni e
pregiudizi, incombe a ricordarci che non siamo Don Chisciotte ma
professionisti, e che, come tali, dobbiamo progettare la nostra azione
educativa e didattica con obiettivi precisi e perseguibili.
E’ necessario,
quindi, comprendere che nella funzione professionale dell’insegnante è insito,
per definizione, il ruolo di mediatore considerando anche il fatto che:
“l’azione educativa è già di per sé, sempre, una mediazione culturale fondata
sul passaggio di informazioni e di saper fare manipolati ovvero rielaborati dalle mentalità, dai metodi, dai
mezzi, dai comportamenti, dai modelli di comunicazione e di comprensione degli
educatori”[3].
Nel caso
specifico, insegnante come mediatore interculturale che agisca per
favorire “ non tanto la transizione da
una cultura all’altra quanto la sintesi – dove possibile – tra culture, allo
scopo di creare momenti pedagogici capaci di andare oltre le reciproche
differenze”[4].
Se la pedagogia
interculturale è un orientamento di pensiero, la didattica ne è la traduzione
pratica con il compito di individuare
percorsi e strumenti adatti a concretizzare i
suoi principi fondanti. La didattica è essenzialmente comunicazione e
dietro la comunicazione ci sono le idee.
Allora la
domanda è: fermi restando i principi fondanti la pedagogia interculturale,
quali scopi si vogliono perseguire affinché questi si traducano in una
didattica efficace?
Leggo dalle Indicazioni Nazionali per i Piani di Studio
Individualizzati, tra gli Obiettivi
generali del processo formativo che la Scuola Primaria : “utilizza
situazioni reali e percorsi preordinati per far acquisire ai fanciulli non solo
la consapevolezza delle varie forme, palesi o latenti, di disagio, diversità ed
emarginazione esistenti nel loro ambiente prossimo e nel mondo che ci circonda,
ma anche la competenza necessaria ad affrontarle e superarle con autonomia di
giudizio, rispetto nei confronti delle persone e delle culture coinvolte,
impegno e generosità personali…”.
Il passo appena
citato racchiude un inquietante messaggio: al di là delle “buone intenzioni”,
traspare l’affermazione di superiorità
di un certo tipo di cittadino (impegnato e generoso) che si rende consapevole
dei mali del mondo e con competenza e autonomia di giudizio li affronta e li
supera (o li salta?); e ancora: tutto ciò utilizzando percorsi preordinati in
situazioni reali. Ma se la realtà è mutevole, come si possono applicare
percorsi preordinati? Esiste una sola ricetta per tutte le realtà?
La prima
impressione è che, con questi presupposti, ripensare la scuola in chiave interculturale
sia piuttosto complicato, giacché ancora una volta l’idea dominante è quella di
una cultura poco disponibile a fare i conti con i suoi pregiudizi, con la sua
presunta etnicità, col suo “accogliere” piuttosto che “integrare”. Queste due
categorie, in questo scenario, assumono la caratteristica dell’assimilazione
scevra da interazione culturale.
Superare questi
limiti ripensando i curricoli didattici, in modo tale da consentire un
ampliamento e un arricchimento sia sul piano culturale sia sul piano affettivo,
fermi restando i presupposti formali, richiede un lavoro di destrutturazione e
di ricostruzione di non poco conto. Fa parte del lavoro di docente, tuttavia,
attivarsi a riconfigurare la propria professionalità attraverso un’attenta
lettura della realtà quotidiana, non prescindendo mai da chi si ha davanti,
avendo la capacità di mediare tra ciò che
egli è e ciò che vorremmo fosse, cercando la sintonia giusta per poter
condurre efficacemente la propria azione.
La chiave è la
comunicazione. Lo abbiamo imparato dalla televisione, da Internet, da tutto
l’apparato mediatico. Gli input
esercitati dai mass media agiscono meglio di tante parole spese nelle nostre
scuole; allora appropriamoci dei linguaggi più vicini ai bambini. Potremmo
sperimentare una didattica più duttile che non segua percorsi lineari ma
circolari, in forma di ipertesto, dove ogni richiamo sia porzione del tutto e
il tutto sia fatto di particolarità. Ciò consentirebbe di sperimentare le
connessioni interculturali, parte in causa della costruzione dei saperi
fondamentali, apprendendo un comportamento che sviluppi la percezione della
propria identità in forma aperta e disponibile all’alterità, con la semplicità
derivata dalla conoscenza e dalla consuetudine; una percezione della realtà che
sia in “divenire”.
Le mie prime
esperienze professionali nella Scuola Elementare di Passoscuro ( Circ.
didattico di Torre in Pietra, Roma) - intorno alla metà degli anni Novanta
- mi hanno fatto entrare in contatto con
un mondo “straniero” che non conoscevo direttamente, ma che mi ha messo di
fronte, in modo drammatico, alla mia incapacità ed inesperienza. I docenti non
erano preparati, a quei tempi, ad affrontare un percorso di insegnamento che
prevedesse, prima di tutto, la comunicazione dal punto di vista linguistico;
ciò aveva una forte ricaduta sulle più banali pratiche didattiche. Ci si
affidava a bambini stranieri, già “scolarizzati”, come mediatori linguistici,
per spiegare cosa volevamo e come lo volevamo. C’erano bambini che si
rifiutavano di parlare, bambini che non potevano mangiare alla mensa perché non
erano previsti menù alternativi che tenessero conto delle diverse esigenze
religiose e culturali, bambini catapultati in un mondo tanto diverso dal loro,
costretti a vivere in modo precario e in estrema difficoltà socio-economica;
bambini spesso rifiutati dagli autoctoni, scherniti e bollati come qualcosa di
pericoloso. L’istituzione scolastica non era organizzata, vacillava davanti
alle richieste pressanti di intervento. Allora ci si affidava alla buona
volontà, al famigerato senso materno, facendoci carico di capire, ascoltare e
soprattutto pensare a soluzioni che, per quanto empiriche, potessero sostenerci
in quel labirinto.
Oggi il panorama
è cambiato: gli alunni, per la maggior parte, sono di seconda generazione,
parlano l’italiano, hanno vissuti meno drammatici e non si possono definire del
tutto “stranieri”.
Nella scuola
dove insegno attualmente, la “Clementina Perone” di Roma, la presenza di
bambini di madre lingua non italiana è piuttosto alta e dalle provenienze più
disparate, questo comporta una profonda riflessione sulle strategie didattiche,
ma non provoca più smarrimento e senso di impotenza. Fortunatamente ora abbiamo
la possibilità di acquisire la competenza necessaria per intervenire in modo
concreto, attingendo da una vasta letteratura e da numerosissime testimonianze
di casi specifici. Impossibile arrendersi, impensabile far finta di niente!
Sono in classe e
guardo i miei bambini: tanti visi colorati, tanti occhi vispi, tante bocche
sdentate, ma sorridenti. Sono foglioline colorate dello stesso albero, una
chioma variopinta e rigogliosa.
Monica Donzelli
[1] Tortolici
C.B.,Appartenenza, paura, vergogna.
L’io e l’Altro antropologico, Monolite
Roma 2003, pag, 33.
[2] Susi F., L’interculturalità possibile. L’inserimento
scolastico degli stranieri., Anicia, Roma 1995, pag. 19.
[3] Demetrio D,- Favaro G., Bambini stranieri a scuola. Accoglienza e
didattica interculturale nella scuola dell’infanzia e nella scuola elementare,
La Nuova Italia Firenze 1997,pag.4.
[4] Ibidem , pag. 5.
Nessun commento:
Posta un commento