domenica 15 luglio 2012

L'albero inteculturale


     “Con occhi sempre attenti e con cicatrici visibili ed invisibili, mi diressi a Nord, pieno di un’oscura nozione che la vita poteva essere vissuta con dignità, che l’altrui personalità non deve essere violata, che gli uomini debbono essere in grado di guardare in faccia gli altri uomini senza timore o  vergogna e che se gli uomini son fortunati nella loro vita sulla terra possono trovare qualche riscattante significato per aver lottato e sofferto quaggiù, sotto le stelle.”
 (R. Wright – “Ragazzo negro”).

In una mattina come tante di un giorno come tanti sono lì che mi affanno a spiegare ai miei alunni di prima elementare quanto sia bello avere dei compagni che provengono da quasi tutte le parti del mondo, quanto sia importante confrontare i modi di dire e le parole che si somigliano e bla bla bla, quando quel bimbetto del primo banco, quello carino con gli occhiali sul nasino all’insù, alza la sua manina, come gli ho insegnato per non interrompere gli altri quando parlano, e chiede serafico:  “è vero maestra che tutti i bambini filippini hanno i denti cariati?”  
“Certamente no!” rispondo incuriosita;  e lui, senza scomporsi,: “no, no è proprio vero, lo ha detto mio padre!”. Stupidamente insisto (deformazione professionale):  “è come dire che tutti i bambini nati a Viterbo portano gli occhiali!”  Il bambino mi guarda con aria interrogativa, tocca i propri occhiali perplesso e mormora: “se lo dice mio padre è così!”.
Allora capisco quanto certi preconcetti siano radicati, quanto i messaggi verbali e non verbali non trovino filtro in queste giovani  menti, quale responsabilità mi sia stata affidata.
E’ tutto da rifare, “fermate il mondo, voglio scendere!” diceva  la mia generazione, forse troppo tempo fa. Ora però siamo grandi e non possiamo più scendere, forse non lo vogliamo nemmeno. Ci assumiamo le nostre responsabilità, ognuno nel proprio ambito. Come insegnante non ho certo i mezzi per risolvere tutti i problemi connessi all’integrazione degli alunni stranieri, ma posso quantomeno provare a pormi in  un’ottica diversa quando parlo ai miei alunni, quando propongo loro uno stile educativo e didattico, superando i confini di una scuola che sempre più spesso accoglie un pezzetto di mondo, divenendo un variopinto puzzle.
E come in tutti puzzle che si rispettano, ogni tessera ha la sua importanza e la sua forma, concorrendo alla realizzazione dell’immagine.

Troppo spesso ci si concentra sul “politicamente corretto”  ignorando che un stile di comportamento si acquisisce nel tempo attraverso la conoscenza e l’incontro; e se è vero che l’identità è un processo di costruzione […] la condizione della sua formazione è la relazione che si attua tra i suoi componenti (di un gruppo n.d.r.) e tra questi e i componenti di altri gruppi…”[1], nel caso specifico nella scuola primaria (e non solo) ci si deve porre il doppio intento di favorire lo sviluppo dell’identità personale come percezione di sé e di identità in termini di relazione con l’altro, dove questo acquisisce il carattere di valore aggiunto e non di diversità biologico-culturale.

Lavorare nella scuola primaria richiede un fondamentale impegno con sé stessi: mettersi sempre in discussione, mai dare nulla per certo o assodato, ricordarsi in ogni momento che si ha a che fare con esseri umani e non con “incartamenti burocratici”.
La scelta di approfondire il discorso interculturale nasce dall’esperienza quotidiana, con l’intento di studiare percorsi di apprendimento in forma aperta, che non racchiudano l’insegnamento entro i limiti rigidamente definiti dai curricoli.
La presenza di bambini di madre lingua non italiana nella scuola, ha posto i docenti nella condizione di reinventarsi, andando a scovare sempre nuove strategie di intervento. Troppo spesso, però, si tratta di interventi poco costruttivi perché non supportati da un’adeguata preparazione in materia.
In altri casi lo smarrimento di fronte alla propria incapacità di affrontare il problema fa diventare arroganti o, caso più consueto, si fa finta che la questione non esista e si continua ad insegnare come se ciò non fosse importante.
Accanto a lodevoli iniziative di insegnanti preparati e probabilmente motivati politicamente (le scuole della Toscana ne sono un esempio) troppo spesso si osservano ridondanti progetti di intercultura ispirati ad un “buonismo” estetico; infatti si constata che la tematica della cosiddetta società multiculturale  è talvolta l’occasione per esercizi di mera retorica che, mentre occultano i termini veri della questione, inducono per di più una cultura dei buoni sentimenti, una coscienza ingenua, da cui sarà arduo e doloroso liberarsi”[2].

Oggi sembra opportuno riflettere, prima di tutto, sugli scopi di un’educazione interculturale nella scuola primaria, cercando di fissare gli obiettivi principali del nostro intervento educativo, ponendo sotto una lente di ingrandimento le realtà di fronte a cui ci si trova, senza perdere di vista di essere solo un’agenzia educativa istituzionale e che un immenso extrascuola, composto di un tessuto connettivo coriaceo fatto spesso di luoghi comuni e pregiudizi, incombe a ricordarci che non siamo Don Chisciotte ma professionisti, e che, come tali, dobbiamo progettare la nostra azione educativa e didattica con obiettivi precisi e perseguibili.

E’ necessario, quindi, comprendere che nella funzione professionale dell’insegnante è insito, per definizione, il ruolo di mediatore considerando anche il fatto che: “l’azione educativa è già di per sé, sempre, una mediazione culturale fondata sul passaggio di informazioni e di saper fare manipolati ovvero rielaborati dalle mentalità, dai metodi, dai mezzi, dai comportamenti, dai modelli di comunicazione e di comprensione degli educatori”[3].
Nel caso specifico, insegnante come mediatore interculturale che agisca per favorire  “ non tanto la transizione da una cultura all’altra quanto la sintesi – dove possibile – tra culture, allo scopo di creare momenti pedagogici capaci di andare oltre le reciproche differenze”[4].

Se la pedagogia interculturale è un orientamento di pensiero, la didattica ne è la traduzione pratica  con il compito di individuare percorsi e strumenti adatti a concretizzare i  suoi principi fondanti. La didattica è essenzialmente comunicazione e dietro la comunicazione ci sono  le idee.
Allora la domanda è: fermi restando i principi fondanti la pedagogia interculturale, quali scopi si vogliono perseguire affinché questi si traducano in una didattica efficace?

Leggo dalle Indicazioni Nazionali per i Piani di Studio Individualizzati, tra gli Obiettivi generali del processo formativo che la Scuola Primaria: “utilizza situazioni reali e percorsi preordinati per far acquisire ai fanciulli non solo la consapevolezza delle varie forme, palesi o latenti, di disagio, diversità ed emarginazione esistenti nel loro ambiente prossimo e nel mondo che ci circonda, ma anche la competenza necessaria ad affrontarle e superarle con autonomia di giudizio, rispetto nei confronti delle persone e delle culture coinvolte, impegno e generosità personali…”.
Il passo appena citato racchiude un inquietante messaggio: al di là delle “buone intenzioni”, traspare  l’affermazione di superiorità di un certo tipo di cittadino (impegnato e generoso) che si rende consapevole dei mali del mondo e con competenza e autonomia di giudizio li affronta e li supera (o li salta?); e ancora: tutto ciò utilizzando percorsi preordinati in situazioni reali. Ma se la realtà è mutevole, come si possono applicare percorsi preordinati? Esiste una sola ricetta per tutte le realtà?
La prima impressione è che, con questi presupposti, ripensare la scuola in chiave interculturale sia piuttosto complicato, giacché ancora una volta l’idea dominante è quella di una cultura poco disponibile a fare i conti con i suoi pregiudizi, con la sua presunta etnicità, col suo “accogliere” piuttosto che “integrare”. Queste due categorie, in questo scenario, assumono la caratteristica dell’assimilazione scevra da interazione culturale.

Superare questi limiti ripensando i curricoli didattici, in modo tale da consentire un ampliamento e un arricchimento sia sul piano culturale sia sul piano affettivo, fermi restando i presupposti formali, richiede un lavoro di destrutturazione e di ricostruzione di non poco conto. Fa parte del lavoro di docente, tuttavia, attivarsi a riconfigurare la propria professionalità attraverso un’attenta lettura della realtà quotidiana, non prescindendo mai da chi si ha davanti, avendo la capacità di mediare tra ciò che  egli è e ciò che vorremmo fosse, cercando la sintonia giusta per poter condurre efficacemente la propria azione.

La chiave è la comunicazione. Lo abbiamo imparato dalla televisione, da Internet, da tutto l’apparato mediatico. Gli input esercitati dai mass media agiscono meglio di tante parole spese nelle nostre scuole; allora appropriamoci dei linguaggi più vicini ai bambini. Potremmo sperimentare una didattica più duttile che non segua percorsi lineari ma circolari, in forma di ipertesto, dove ogni richiamo sia porzione del tutto e il tutto sia fatto di particolarità. Ciò consentirebbe di sperimentare le connessioni interculturali, parte in causa della costruzione dei saperi fondamentali, apprendendo un comportamento che sviluppi la percezione della propria identità in forma aperta e disponibile all’alterità, con la semplicità derivata dalla conoscenza e dalla consuetudine; una percezione della realtà che sia in “divenire”.

Le mie prime esperienze professionali nella Scuola Elementare di Passoscuro ( Circ. didattico di Torre in Pietra, Roma) - intorno alla metà degli anni Novanta -  mi hanno fatto entrare in contatto con un mondo “straniero” che non conoscevo direttamente, ma che mi ha messo di fronte, in modo drammatico, alla mia incapacità ed inesperienza. I docenti non erano preparati, a quei tempi, ad affrontare un percorso di insegnamento che prevedesse, prima di tutto, la comunicazione dal punto di vista linguistico; ciò aveva una forte ricaduta sulle più banali pratiche didattiche. Ci si affidava a bambini stranieri, già “scolarizzati”, come mediatori linguistici, per spiegare cosa volevamo e come lo volevamo. C’erano bambini che si rifiutavano di parlare, bambini che non potevano mangiare alla mensa perché non erano previsti menù alternativi che tenessero conto delle diverse esigenze religiose e culturali, bambini catapultati in un mondo tanto diverso dal loro, costretti a vivere in modo precario e in estrema difficoltà socio-economica; bambini spesso rifiutati dagli autoctoni, scherniti e bollati come qualcosa di pericoloso. L’istituzione scolastica non era organizzata, vacillava davanti alle richieste pressanti di intervento. Allora ci si affidava alla buona volontà, al famigerato senso materno, facendoci carico di capire, ascoltare e soprattutto pensare a soluzioni che, per quanto empiriche, potessero sostenerci in quel labirinto.

Oggi il panorama è cambiato: gli alunni, per la maggior parte, sono di seconda generazione, parlano l’italiano, hanno vissuti meno drammatici e non si possono definire del tutto “stranieri”.
Nella scuola dove insegno attualmente, la “Clementina Perone” di Roma, la presenza di bambini di madre lingua non italiana è piuttosto alta e dalle provenienze più disparate, questo comporta una profonda riflessione sulle strategie didattiche, ma non provoca più smarrimento e senso di impotenza. Fortunatamente ora abbiamo la possibilità di acquisire la competenza necessaria per intervenire in modo concreto, attingendo da una vasta letteratura e da numerosissime testimonianze di casi specifici. Impossibile arrendersi, impensabile far finta di niente!

Sono in classe e guardo i miei bambini: tanti visi colorati, tanti occhi vispi, tante bocche sdentate, ma sorridenti. Sono foglioline colorate dello stesso albero, una chioma variopinta e rigogliosa.

Monica Donzelli





[1]  Tortolici  C.B.,Appartenenza, paura, vergogna. L’io e l’Altro antropologico,  Monolite  Roma 2003, pag, 33.
[2] Susi F., L’interculturalità possibile. L’inserimento scolastico degli stranieri., Anicia, Roma 1995, pag. 19.
[3] Demetrio D,- Favaro G., Bambini stranieri a scuola. Accoglienza e didattica interculturale nella scuola dell’infanzia e nella scuola elementare, La Nuova Italia  Firenze 1997,pag.4.
[4] Ibidem , pag. 5.

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